Presso la pantera, volgo il mio sguardo prudente alla lupa, alla lonza e al leone. Prego sulla facciata di San Michele in Foro che mi lascino entrare. Non mi resta che dire: Sono quel che vien dall’altra parte. Dal meridione estremo. Foris portam. Son quel che non c’è mai o quel che appena posa e subito riparte. Così straniero e prossimo. Un indizio di paradossale lontananza. Siam vicini e sperduti. Di qua o di là dalla porta. Il richiamo del mondo, difronte a un territorio immateriale. Prope portam. Ecco il mio supplizio. La fisima di portarmi dietro una Lucca segreta – oltre i consueti baluardi. Cerco soltanto parvenze di parole non assodate del tutto, stranamente infoltite, pigiate, ammassate. Lonza e pantera. Un parlare sbilenco. Un parlare balbuziente. Forse. Pieno di silenzio e trebèsto. Sono di madrelingua italiana e il Monte di Quiesa mi custodisce. Vado sempre all’insù, verso Pieve a Elici e Montigiano. Sine ira ac studio. Oppure con una lieve grinta dinanzi alla mia assenza caparbia, che potrei dirla, col Bianchini, cionca e pizzicata. Come se vi fosse di mezzo troppo mondo. Diciamolo tra noi: la pantera e la lonza. Son diventato un lavandaio tra l’Arno, il Serchio e il Carioca. Saranno questi i tre fiumi a cui risponderò? La mia lingua è illibata e sudicia, affollata e sola, piena di polvere e passato remoto, sospesa da un presente pervaso di perplessità. Lingua crèola e ribalda, col bernoccolo del futuro. Che sa di vecchi libretti d’opera e si immedesima con la storia della poesia italiana, seguìta con baldanza e riottoso amore sin dalla prima gioventù. Lupa e Lonza. Lingua compagna del vecchio portoghese, all’alba dell’umanesimo. In tale innesto mi riconosco brasiliano, seppur recente, a cui dovrò aggiungere, senza titubanza, e per scarsa simmetria, che sono parimenti un italiano novello. Anfibio. Con due lingue e cuori. Leone e pantera. Adesione e abbandono. Tregua feroce e sorda guerra. Un assolo a due voci. Violino e contrabbasso. E non so dir qual sia la voce che meglio a me stesso mi presenti. Due patrie e due lingue. Sono piuttosto un mezzadro fra due raccolte. Cacciatore sperduto in un bosco di stranezze, avverto l’abbondanza d’acqua. Scaturisce dalla polla cristallina degli occhi di mia madre, presso alla quale mi sono dissetato per secoli. Lingua e dialetto. Non lingua o dialetto. E perciò, parole a bizzeffe: libere, cantarine, scostumate, galanti e biricchine. La sua e la mia lingua. Con delle arie sempre rinverdite e le canzoni dagli anni trenta agli anni sessanta del secolo scorso. Vere anticaglie, simili alle terme di Nerone nei pressi di Massaciuccoli. Lonza. Pantera. Un repertorio innumerevole. Mi spiego: mia madre era uno splendido jukebox e la lingua italiana diventò per me fin dal principio un quasi recitativo, accompagnato dal pianoforte o semplicissimamente a cappella. Canto e respiro. La notte in mezzo april. Mia madre era un uccellino. Non mi piace dir passero o tortora. Mi garba invece ravvisarla come un bel lucarino – lucherino. La mia finestra si apre sulla Garfagnana e arriva alla sconfinata e lilliputiana Massarosa. Lingua del paradiso. Casa Checchi. Piazzale. Pantaneto. Sgombera di sofisticheria, viva di sfumature, con quella dovizia semantica appena emersa dal fondo delle campagne. La mia lingua assomiglia a quella di un contadino senza gregge, stalla, frantoio e cavallo. Lingua ortodossa e vigile, seppur gelosa delle sue timide e ostinate arlìe. E se non vivo su quel preciso territorio, lo sento del tutto vicino mentre mi agghiada. Divoro la pantera che a sua volta adagio mi divora. Si pareggia sempre. Dilaniati entrambi. Eppoi si ricomincia la partita. Da grandi giocatori di carte. Senza burbanza. In tal frangente, penso alle rovelline e pasimate. La zuppa al farro. E dopo dei fagioli conditi con olio e aceto. Quell’olio d’oliva che lavora da solo, teologicamente ubiquo e da tutti bramato. Pollame e selvaggina. E si licet sul pane casalingo, raffermo. La mia lingua è fatta non solo di città, ma di castella, borghi, casolari. Al di là della porta. E così bisogna riedere presto o tardi alla città fatale, amata nel silenzio e nella distanza, alla città che mi sente e mi indovina. Come il profumo delle cose essenziali. Saluto San Michele in Foro e vedo le bestie affollate sugli intarsi marmorei. Sono i miei ospiti. Quella gente viva o irreale dentro Me. La lingua buia e chiara. Quel logorìo di larve e di parvenze. Il nitore delle prime cose. La polla gentile. Il lucherino. Intra portam. E quella Lucca dentro. Lonza e pantera, mentre chiedo:
Dove
trovarti
o mia città fatale?
in qual
gentil rivera
o gracil sogno
il tuo volto
impalpabile
e perduto?
forse
nella Maremma
ti nascondi
nei miei
recessi
di brughiera
oppure
ti protendi
verso il regno di Catai?
d’esilio
e ippocastani
i tuoi confini
Lahsa
nella nebbia
avviluppata
Djabolsa
sorvolata
dal Simurg
città fiorite
e rare come
quelle di
Ariosto o Rabelais
eppur
nessuna
t’indovina
o Lucca
dentro Me
non quella
fisica
di pietra
o sangue
ma l’altra
mai vista
e sentita
Lucca
dentro Me
terra
di sangue
e di pietà
che mi vede
mi prova
e mi sente
(Escrito em italiano para o prêmio Pantera de Ouro conferido na cidade de Lucca, no dia 29/10/2011)